“Guarire” ha la stessa radice di “guardare”.
Mi piace pensarci ora, mi piace pensare che per guarire io mi stia guardando da fuori. Come si fa con un bambino al parco, come si fa con un castello. Mi piace pensarmi “in guardia” dagli assalti, dal nemico. Mi piace sapermi all’erta, guardinga, fuori dalle mura di me, entro il fossato.
Mi piace sapere che mi sto prendendo cura di me. E anche “cura”, d’altronde, deriva dalla latina “preoccupazione”. Mi guardo, e mi preoccupo, come una madre al parco, sì. Però lascio che io corra e chi mi sbucci le ginocchia.
Guarire da cosa, mi chiederesti innocente.
(Ah, se mi guardassi anche tu, qualche volta, ma davvero. Quante cose che vedresti, un universo intero di colori, di emozioni difficili da tenere, di caos e idee da imbrigliare.)
Guarire da cosa, mi chiederesti ancora, non capendo.
(Fuori dalla metro c’è una coppia di ragazzini che si baciano contro una parete scrostata, lei non indossa i calzini, per strada c’è una signora che sorride da sola, c’è una coppia di quarantenni con un bambino e lui gli fa le boccacce di nascosto, ci sono due signori anziani bassi e tarchiati che si tengono per mano.)
Guarire dall’amore. Dall’amore di cui mi hai svuotato. Guarire da te, ecco cosa non posso dirti.
Per guarire basterà guardare? O dovrò imparare a colpire se arriva il nemico? Quante cose dovrò imparare ancora a fare che non sono in linea col mio carattere? Dovrò essere cinica, dovrò mentire, dovrò fregarmene di chi ho davanti. Dovrò imparare a dire no. A quante parti di me dovrò ancora rinunciare, per riavermi tutta indietro?
Perché sai, queste cose non c’erano mica scritte, non c’era mica un contratto tra noi. C’erano solo un sacco di promesse false. Che non hai firmato. E ora mi piovono addosso come lame. Promesse promesse promesse. E ora mi feriscono e mi riempiono il cervello, e ora mi convincono a non fidarmi mai più di nessuno.
C’è una parte di me, allora, che ha il voltastomaco a guardare i ragazzini al primo amore, i vecchi che ancora non l’hanno perso. Distolgo subito lo sguardo, ma potente incasso il pugno nello stomaco. Gioco a fare quella forte, quella sicura e indipendente ma. Quello è quello che ho sempre voluto, quello che non ho mai avuto davvero.
E cerco dentro di me il difetto di produzione: cosa c’era in me da non bastarti?, perché non sono valsa mai la candela?, mi chiedo in continuazione.
E allora sì, ora lo so: per guarire bisogna imparare a guardare, ma da un’altra prospettiva. Bisogna andare oltre il fossato, bisogna stare fuori dallo steccato del parco. Non alla ricerca di ciò che non va, non aspettandosi una sbucciatura di ginocchia, ma per la prima volta cercando cosa è a posto, cosa non si è disposti a compromettere di sé.
Allora, di “guarire” preferisco uno dei due corrispettivi latini, “convalescere” o “sanare”: entrambi hanno dentro la radice di “sano”. è questo il trucco: guardarsi dentro e scoprire di essere a posto, che tutto ciò che serve è già là. Bisogna solo permettere al corpo (e alla mente, e al cuore) di riprendersi. E per questo ci vuole solo del tempo.
Ah, nelle puntate precedenti, meditavo sulla fine di un amore, sul desiderio di avere almeno Una notte ancora
(Consigli per gli ascolti: Worry – Jack Garratt)
wow! mi piace come scrivi e quello che dici
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